Come siamo arrivati a questo punto?
In due mesi siamo passati dall’essere spettatori distaccati dell’epidemia cinese a protagonisti principali dell’emergenza sanitaria più grave degli ultimi 100 anni. In poco tempo abbiamo raggiunto e superato la Cina per numero di deceduti per COVID19.
Ma come è stato possibile essere arrivati a questo? Come è stato possibile superare un paese enorme come la Cina che ha dovuto prima identificare un nuovo virus, poi studiarlo e quindi fermare l’epidemia?
Come è stato possibile che paesi come la Corea del Sud, Singapore e Giappone molto più vicini geograficamente alla Cina abbiano potuto controllare l’epidemia senza bloccare l’intero paese come invece hanno dovuto fare l’Italia e la Spagna che sono a migliaia di chilometri?
Se osserviamo il numero dei deceduti per COVID19 vediamo come la curva sia praticamente piatta in Giappone e esponenziale in Italia, Spagna e Regno Unito. Ho scelto di rappresentare il numero dei deceduti perché, sebbene sottostimato dal fatto che non tutti i decessi registrati in questo periodo vengono testati per la presenza del virus poiché rappresentare il numero dei casi positivi sarebbe stato ancora meno accurato: la scelta di quando, quanto e come testare la popolazione varia enormemente da paese a paese.
Per meglio capire cosa sia successo in Corea del Sud e Giappone bisogna premettere che questi paesi hanno già avuto esperienze in passato con un virus simile. L’epidemia di SARS nel 2002–2003 mise in allerta i paesi asiatici che svilupparono una serie di protocolli risultati molto efficaci nel combattere l’attuale epidemia.
In breve, la Corea del Sud ha deciso di testare qualsiasi persona abbia avuto sintomi para-influenzali per individuare così tutti i possibili infetti sintomatici. Tracciando poi tutti i contatti che questi ultimi avevano tenuto di recente, hanno testato e quindi isolato anche gli asintomatici, potenziali propagatori inconsapevoli del virus. Con una applicazione ad hoc hanno controllato gli spostamenti di tutti gli infetti e li hanno condivisi pubblicamente, in barba a ogni regola di privacy. La raccolta dei campioni è avvenuta con una modalità che ha ridotto moltissimo il pericolo di infezione del personale e la quantità di protezioni necessarie: in apposite aree allestite allo scopo, infatti, i coreani sono arrivati con le proprie auto e senza dover nemmeno scendere dal veicolo, hanno lasciato il proprio campione per il test e sono tornati a casa ad aspettare il risultato. Infine per i pazienti positivi, che hanno sviluppato la forma più grave della malattia, con necessità di ricovero ospedaliero, era disponibile un numero elevatissimo di letti d’ospedale.
Il Giappone invece ha testato solo i sintomatici e controllato i vari focolai. La popolazione giapponese ha una età media molto avanzata e ha un gran numero di fumatori se confrontato con altri paesi. Nonostante tutto ha avuto pochi casi e pochi decessi. Come è possibile?
Se mettiamo da parte l’ipotesi che il paese stia nascondendo i veri casi, una possibile spiegazione potrebbe essere data dal fatto che la popolazione sia abituata a indossare mascherine quando ammalata e, in generale, è più propensa al distanziamento sociale. Inoltre il semplice fatto che usino l’inchino al posto della stretta di mano potrebbe aver influito. Il governo poi ha comunque sospeso le scuole e bandito gli eventi pubblici.
Seguendo due distinte strategie questi paesi hanno contenuto l’epidemia senza distruggere l’economia del loro paese.
Cosa è successo in occidente? Il caso dell’Italia.
Le misure di contenimento messe in atto dall’Italia non appena l’emergenza Coronavirus in Cina era diventata allarmante, sono state in pratica la sospensione dei voli da e per la Cina e, in seguito, il controllo della temperatura dei viaggiatori agli aeroporti.
Bloccare i voli diretti ha solo complicato i viaggi tra Italia e Cina. Questi infatti sono continuati indisturbati mediante scali in altri paesi. Così quella che doveva essere una misura di contenimento è diventata una forma agevole di diffusione dell’infezione. Per chi infatti è tornato in Italia dalla Cina mediate scali in altre nazioni, non risultando un viaggiatore proveniente dal focolaio dell’infezione, non c’è stato obbligo di quarantena, come avveniva in altri paesi dove i voli da e per la Cina, continuavano ad essere ammessi.
Quindi il virus è arrivato agevolmente in Italia e ha potuto circolare liberamente per diverso tempo. Solo quando il 21 febbraio una dottoressa ha avuto il dubbio che quello che si trovava davanti non era una classico caso di polmonite batterica bensì un caso di COVID19, è scattato l’allarme.
Da quel momento l’Italia ha iniziato ad analizzare tutti i possibili casi di infezione, scoprendo che il focolaio era esteso, che aveva raggiunto gli ospedali e che diversi altri casi di polmonite atipica erano stati precedentemente ignorati.
A quel punto alcune località sono diventate zona rossa (dieci comuni del lodigiano e il comune di Vo’ nel Veneto) e messe in quarantena con sospensione di scuole, attività lavorative, eventi ecc. Nonostante questo, diverse persone sono state in grado di sfuggire alla quarantena e diffondere così il virus altrove. Al ritmo con cui ulteriori ordinanze dichiaravano zona rossa un numero sempre maggiore di comuni, il virus allargava i suoi confini viaggiando con il flusso di persone che si affrettavano a lasciare le zone in quarantena per rifugiarsi nelle zone non ancora colpite. Quando l’Italia intera è diventata zona rossa ormai il virus dilagava ovunque e ad oggi ha causato migliaia di morti.
Mentre da un lato si adottavano misure di contenimento fallimentari dall’altro su vari fronti si cercava di sminuire la gravità della malattia.
Diversi esponenti politici e medici infatti, erano più spaventati dai possibili danni economici che da quelli sanitari e hanno derubricato il COVID19 a una forte influenza.
Per molto tempo alla popolazione è stato ripetuto che l’uso delle mascherine (riconosciute in seguito come presidio fondamentale) fosse inutile e che gli asintomatici non erano in grado di trasmettere l’infezione mentre ad oggi questa possibilità appare sempre più reale.
A onor del vero, un solo scienziato aveva fin da subito capito la gravità di ciò che stava succedendo: il prof. Roberto Burioni. Inizialmente è stato tacciato di catastrofista e incensato poi quando ormai era troppo tardi.
Ancora oggi l’Italia sta tentando disperatamente di contenere la diffusione del virus ma senza esito.
Cosa è successo in occidente? Il caso della Spagna.
La Spagna ha avuto tutto il tempo di studiare come l’epidemia si stava diffondendo e come veniva gestita nel paese al lato. Avrebbe potuto controllare l’epidemia sul nascere, invece ha ripetuto incredibilmente gli stessi errori ed è stata capace di fare anche peggio.
Nonostante alcuni eventi, come il Mobile di Barcellona, sono stati cancellati perché gli espositori provenienti da tutto il mondo si sono rifiutati di partecipare, altri eventi sono stati confermati e si sono svolti regolarmente. In particolare il raduno del partito di estrema destra VOX e le manifestazioni femministe dell’8 Marzo (con lo sfortunato motto di: “El machismo mata más que el coronavirus”) si sono trasformati in incredibili eventi di diffusione. Il responsabile della Sanità Fernando Simón, epidemiologo, interrogato sulla manifestazione dell’8 marzo, ha dichiarato: “Se mio figlio mi chiedesse se può partecipare alla manifestazione gli direi: fai quel che vuoi”.
Nel frattempo a Valencia Las Fallas, un altro evento che attira ogni anno grandi folle di turisti, andava avanti regolarmente. Quest’anno ben 20,000 italiani erano accorsi per assistervi senza alcun controllo, nonostante il focolaio italiano era divampato da tempo.
Un evento che pare abbia avuto un ruolo importante nella diffusione iniziale del virus tra Italia e Spagna è stata la partita di Champions tra Atalanta e Valencia, giocata a Milano il 19 febbraio. Il primo decesso per COVID19 a Valencia, infatti risale al 3 febbraio, individuato successivamente con un tampone post mortem. Risulta quindi che a Valencia ci fosse un primo focolaio nascosto, anteriore alla scoperta del primo caso noto in Italia datato 21 febbraio.
La situazione in Spagna è precipita il 9 Marzo, quando il numero dei casi è diventato tale che il governo è stato costretto a chiudere le scuole e le università e a bloccare prima la zona di Madrid e poi l’intero paese.
Anche qui come da copione è cominciata la fuga dalla zona rossa verso le zone non ancora colpite. Da un lato abbiamo gli studenti che da Madrid sono tornati nelle loro città di origine e dall’altro interi nuclei familiari che, di fronte ad una città bloccata, hanno deciso di recarsi nelle seconde residenze al Sud della Spagna o peggio in piccoli centri di montagna, dove la capienza limitata degli ospedali ha reso la situazione ancora più pericolosa.
Anche in Spagna come in Italia molte misure di contenimento si sono trasformate in una forma di massima diffusione del contagio. Dopo il lockdown il governo ha deciso di ridurre il numero di treni e metropolitane mentre alla popolazione veniva comunque permesso di continuare ad andare al lavoro. Il risultato è stato avere mezzi di trasporto super affollati.
Con la chiusura delle scuole poi, per poter continuare a lavorare, molti genitori hanno affidato i bambini ai nonni che hanno portato i bambini ai parchi. Il risultato è stato da un lato esporre la categoria più a rischio al contagio e dall’altro vanificare il provvedimento che mirava a ridurre il contatto tra bambini.
Adesso la Spagna si ritrova con un trend ascendente superiore a quello italiano, con meno risorse e meno mezzi ospedalieri.